Wednesday 4 June 2008

Hello, Stranger!


You probably see them every day, yet you don't know them. They are called familiar strangers.
They are the people you meet repeatedly on the bus, on the tube, at the gym or at the cafeteria, but you never talk to them. Nevertheless they are a part of your social circle, because you kind of notice if they're missing. You establish a relationship of sorts with them, one that dictates no contact, but no hostility. And if you happen to stumble upon them outside the normal routine they are associated with, maybe on holiday, then the social curtain lifts, and you do actually talk to them. Your common background becomes a strong enough connection to engage in social contact.

You probably have a few of them as Facebook friends, too. Would you say 'hello' if you encountered them in the street?

Berkeley University launched a project about this a few years back. It stems from the research of great cognitive psychologist Stanley Milgram, famous for his Small World Experiment that spawned the 'six degrees of separation' theory. He has explored this in a paper called The Familiar Stranger: An Aspect of Urban Anonymity.

Tuesday 20 May 2008

The end of the Banana Republic

Bananas are going extinct.

And it's not the first time it happens, either. Bananas you find in supermarkets the world over all belong to a cultivar called Cavendish. It's the only variety that is suitable for extensive commercial crops and all plants are clones of one another (this is also due to the fact that the banana plant is a herb, not a tree; and while we're at it, bananas are technically berries). But if you could go back to 1950 you would find a different type of banana. A much better one.

Before it was wiped out by a fungus called the Panama disease, the world feasted on a lush banana cultivar called Gros Michel. It produced larger fruits that kept fresh for longer, and connoisseurs say they were tastier, too. But to be commercially viable, it suffered from the same problem as today's plants: it had no genetic diversity. As soon as the disease started spreading, in Honduras in the 1920s, it was just a matter of time before all of the world's banana plants were under attack. So when Gros Michel was about to go belly up, a new disease-resistant variety was found in Vietnam. It was the Cavendish.

Cavendish bananas, which hang from the 'tree' upside down like all bananas, have to be encased in plastic bags covered with pesticides while growing. They also have a much shorter shelf life and need to be collected when completely green. They are then artificially ripened at their final destination by putting them in rooms filled with ethylene gas. Still, they represent one of the world's largest commodities and they are probably the very first 'fast food': all bananas are pretty much identical wherever you go, just like Big Macs. Of course, you can still find locally produced Gros Michel bananas and tens of other varieties, mostly in South America.

But now, the Cavendish is also under attack from a variant of the same disease that killed its predecessor. What will happen when it goes bust? Well, we do have the technical resources to tackle the problem in labs directly. New banana types are literally being grown in test tubes. Which, for some people, might be scarier than losing the world's most beloved fruit altogether.

Monday 28 April 2008

Meme o non Meme?

Cos'è un "meme"? Il termine, coniato dal grande biologo Richard Dawkins, indica un frammento di informazione che, analogamente al gene per la genetica, è in grado di replicarsi in maniera autonoma, come un tormentone. Da un meme parte l'ultima tappa del nostro viaggio nel fenomeno del foreign branding: nasce infatti circa sei anni fa come “street meme” il marchio di abbigliamento giovanile A-Style. L’idea venne a Marco Bruns, che creò il famoso logo (una ‘A’ con due puntini e un doppio senso erotico) e lo diffuse attaccando adesivi ai semafori di Milano. Non c’era alcuna pretesa commerciale: è stata la notorietà del marchio e l’attenzione dei media a convincere Bruns a lanciare, nel 2001, una linea di felpe, jeans e magliette, oggi prodotte nel carpigiano. Un successo così cristallino che ha generato persino dei cloni: nelle strade delle nostre città si vedono infatti oggi adesivi simili ma basati sulle lettere ‘H’, ‘K’ e ‘Z’.

Altrettanto curiosa l’origine del controverso marchio De Puta Madre 69, linea d’abbigliamento prodotta dalla I.F.U. di Roma, il cui significato è in realtà diverso dallo scurrile senso letterale: in slang spagnolo significa infatti “bellissimo”, o “alla grande”. La storia della creazione del brand è ai limiti del surreale (e forse solo frutto di una trovata di marketing): il colombiano Ilan Fernandez, arrestato per traffico di droga a Barcellona, avrebbe cominciato a scrivere questa e altre frasi provocatorie con dei pennarelli su delle magliette. Queste, indossate all’esterno dai secondini, ebbero un certo successo e lo convinsero a iniziare un attività in Italia, per rifarsi una vita dopo aver scontato la sentenza. Nelle sue scritte c’è una volontà di redenzione: volutamente scioccanti e ricche di riferimenti alle droghe, mettendo al centro dell’attenzione chi le indossa dovrebbero funzionare da surrogato proprio per l’uso delle droghe, che secondo Fernandez sono ricercate dai giovani soprattutto per richiamare l’attenzione su di sé.

Anche nel campo del design alcuni marchi italiani potrebbero trarre in inganno, come è il caso della Poltrona Frau, nome che nulla a che vedere con la lingua tedesca (in cui “frau” significa “signora”), ma deriva dal cognome del fondatore, il cagliaritano Renzo Frau. Fondato nel 1912, il gruppo Frau è oggi quotato alla Borsa Italiana e comprende anche altri grandi marchi del design come Cappellini, Cassina e Alias.
Suono teutonico anche per Kartell, marchio storico del made in Italy che produce mobili, lampade e accessori, svariati dei quali sono esposti anche al MoMA di New York. Fondata nel 1949 da Giulio Castelli, la Kartell prende il nome dalla fusione dei cognomi dei soci.

Di simile origine è il marchio MOMO, abbreviazione di “Moretti – Monza”. Suo ideatore il pilota dilettante Giampiero Moretti, che negli anni sessanta decise di sostituire il volante della sua auto da corsa con uno più piccolo, ma dalla presa migliore grazie allo spessore maggiorato. Il curioso voltante attirò l’attenzione del pilota inglese della Ferrari John Surtees, che lo volle installare sulla sua monoposto. Era il 1964, e quell’anno Surtees vinse il campionato del mondo di Formula Uno. Le richieste cominciarono ad arrivare, e nel 1966 Moretti fondò la sua azienda a Tregnago, nei pressi di Verona: il primo ordine arrivò da Enzo Ferrari, che volle volanti MOMO per tutte le sue auto.

Sono molti altri i marchi italiani dal nome straniero: solo nel settore dell’abbigliamento ci sono Bastard, Blumarine, Colmar, Costume National, Energie, Gas, Genny, Guru, Killah, Kiton, Max Mara, Miss Sixty, Onyx, Original Marines, Phard, Replay, Rifle, Stone Island e Wampum, così come Sisley, Playlife e Killer Loop (tre marchi del gruppo Benetton). Italiani anche gli zaini Invicta e Seven, e i caschi AGV, Nolan e Suomi.
Nel settore automobilistico citiamo i produttori di cerchi in lega Fondmetal (che diede anche il nome a una scuderia di Formula Uno tra il '91 e il '92), Speedline e O.Z. Racing, in quello dell’elettronica di consumo Mivar, Magnex, Urmet, Seleco, Telit, Joycare, Philco e Brionvega. Italiani anche il costruttore di macchinari per il fitness Technogym e il produttore di accessori per ufficio Zenith.
Non ha sede in Giappone ma in provincia di Milano il produttore di articoli per la scrittura Osama.
Vera e propria esplosione della corrente anglofoba nel settore tecnologico: soltanto limitandoci al listino techSTAR della borsa di Milano troviamo, fra le altre, Acotel, BB Biotech, Datalogic, Digital Bros, Engineering, Esprinet, Eurotech, Fastweb, Fullsix, Gefran, I.Net, Saes Getters, Reply e TXT e-Solutions.
Italiana d’importazione la casa editrice Sperling & Kupfer, fondata in Germania ma che ha oggi sede a Milano. Curioso infine il caso dello stilista Pierre Cardin, nato in Veneto da genitori francesi con il nome di Pietro Cardìn.
Nel settore del trasporto aereo sono Italiane, a dispetto del nome, le linee aeree Eurojet, Eurofly, MyAir.com, AirOne, Air Freedom, ClubAir, Livingston, Neos, Windjet, AirEurope, Mistral Air, Blue Panorama e le defunte Gandalf, Air Columbia, Goldwing Airlines, Med Airlines, Aeral e Panair.

Thursday 24 April 2008

Untouched by man.

Inutile negarlo: sono un fan della Fiji. Mi conquista l'idea che nell'elegante bottiglia quadrata (fatta con tanto PET di alta qualità) ci sia pura, incontaminata acqua proveniente da una sorgente artesiana di Viti Levu, la più grande isola dell'arcipelago delle Fiji. Mi titilla il pensiero che quest'acqua, come promette l'etichetta, sia estratta da una fonte sotterranea in modo tale da non venire a contatto neppure con l'aria, se non quando giri il tappo per aprire la bottiglia. Mi sollazza il "mouthfeel" vellutato, quasi setoso, garantito dall'alto contenuto di silicio (85mg/l). Mi gratifica il pensare che sia l'acqua più "esclusiva" del mondo, da 8 dollari a bottiglia nei minibar dei megahotel di Beverly Hills (e facciamo finta di non sapere che se ne producono 2 milioni di bottiglie al giorno e che si trova a $1,50 al pezzo in qualunque drugstore di Los Angeles...).

Così, dato che da noi la Fiji non arriva - si trova "ufficialmente" solo in USA, UK e Australia - l'ho presa via internet, grazie ad un onesto erborista padovano che me ne ha vendute 24 bottiglie da 500ml a un prezzo che mi vergogno a dire, recapitandomele però (e questo è un record) esattamente 18 ore dopo aver cliccato sul "Compralo Subito" di eBay.

Poi, passata la sete, mi è venuta voglia di saperne di più sulla meravigliosa, purissima, deliziosa acqua Fiji. Per imbottigliarla è stata costruita (ormai 10 anni fa) una fabbrica allo stato dell'arte, rispettosa dell'ambiente e operante grazie alla forza lavoro locale, in un arcipelago dove - pensate un po' - più di metà della popolazione non ha acqua potabile a disposizione, al punto che in certe situazioni di emergenza è la stessa Fiji a distribuirne ai locali: immaginatevi un fijiano alle prese con il colera e la malnutrizione, che si beve la stessa acqua delle star di Hollywood.

La fabbrica opera ininterrottamamente, 24 ore al giorno, e per farlo deve utilizzare 3 generatori di corrente a gasolio, che presumibilmente contaminano quello stesso ambiente "incontaminato" da cui è estratta la preziosa acqua. Le bottiglie di plastica arrivano dalla Cina, via nave: quella che ho appena bevuto ha quindi dovuto viaggiare fino alle Fiji per essere riempita, e poi presumibilmente verso gli USA, prima di venire importata dal mio amico padovano: insomma, un viaggio attorno al globo di circa 23mila chilometri.

Da ciò si può calcolare che per produrre una bottiglia da un litro di Fiji si consumano circa sei litri d'acqua (per la produzione della plastica e il raffreddamento dei vari macchinari), si usano 240 grammi di combustibili fossili (soprattutto per i trasporti) e si producono 0,25kg di anidride carbonica. Tutto questo moltiplicato per alcuni milioni di bottiglie alla settimana. Sarebbe meglio andare direttamente alle Fiji a prendersela: quasi quasi...

Wednesday 23 April 2008

I Grandi Flop (3): aerei, auto e... cassette

Nel 1967 l’Unione Sovietica presenta il Tupolev Tu-144, la versione russa del Concorde. E’ così simile all’originale che la stampa lo rinomina “Concordski”, e si rincorrono notizie su presunti episodi di spionaggio industriale: sarebbe nato da alcuni progetti ufficiali trafugati a Parigi. Il suo volo inaugurale avviene addirittura 2 mesi prima di quello del “vero” Concorde, ma nel 1973, sempre a Parigi, il primo Tu-144 di produzione di serie si schianta al suolo, forse disturbato da un caccia Mirage intento a fotografarne i segreti aerodinamici, in un curioso caso di contro-spionaggio. Un duro colpo da cui il velivolo non si riprenderà più: già nel 1978 si conclude il servizio passeggeri, dopo soli 55 voli. Poca fortuna anche per il razzo Europa, cinque lanci e cinque esplosioni, e per l’aereo di linea De Havilland Comet 1, 3 gravi incidenti nei primi due anni di servizio per difetti di progettazione che ne stroncheranno la vita commerciale.

Automobili. La Ford fa flop con la Edsel, del 1956, che vende meno di 100mila unità e segna la storia del costruttore americano. Due anni dopo rischia di fare pure peggio con la Nucleon, una macchina che doveva avere a bordo un reattore nucleare: fortunatamente non costruiranno neppure il prototipo. L’Alfa Romeo, nel 1980, cerca invece di entrare nel settore delle medie in tutta fretta tramite una joint-venture con la giapponese Nissan: in soli tre anni nasce la linea di montaggio dell’Arna (Alfa Romeo Nissan Automobili SpA), che tuttavia rappresenta il peggiore fallimento nella storia della casa di Arese e condurrà alla sua cessione alla Fiat.

Tecnologie. Oltre al Betamax, Sony ha dovuto incassare lo scotto del fallimento anche per la goffa Elcaset (un nastro analogico di dimensioni superiori alla normale cassetta -e conseguentemente una migliore qualità audio- lanciata nel 1976 e definitivamente abbandonata nel 1980) e il Bookman (un avveniristico lettore di CD-ROM interattivi penalizzato da un display piccolo e di scarsa risoluzione). La Philips non è invece riuscita a bissare il successo della sua “Compact Cassette” con la versione digitale, la DCC: lanciata nel 1992, è durata pochi anni (tuttavia, un particolare wafer di silicio progettato per la DCC è ora utilizzato per filtrare la birra, perché perfetto per separare dal liquido le particelle di lievito…)
Pessima esperienza anche per il DIVX (Digital Video Express), sistema di noleggio dal nome identico a quello del famoso formato di compressione: richiedeva l’acquisto di lettori speciali da collegare alla linea telefonica. I dischi, dal costo ridotto, si potevano vedere solo per 48 ore, trascorse le quali si doveva pagare una tariffa ulteriore. Un sistema complicato che il mercato ha ripudiato nel giro di sei mesi.

Tuesday 22 April 2008

Mi vibram tutto

Guardate le suole delle vostre scarpe: forse ci troverete un bollino giallo con la scritta “Vibram”, anche se sono di produzione estera. La Vibram produce oggi 32 milioni di suole l’anno per oltre 1000 marchi di calzature; negli Stati Uniti il marchio è ai piedi di pompieri, poliziotti, esercito e persino dei Marines, tanto che gli americani sono convinti sia un brand made in USA e lo chiamano “vaibram”. Invece, la parola è la contrazione del nome di Vitale Bramani, che progettò la sua prima suola nel 1937 dopo che una tragica spedizione sul monte Rasica causò la morte di 6 suoi compagni. Si rivolse alla Pirelli per la creazione di una robusta suola in gomma: nacque così il famoso “Carrarmato”. Fu proprio con le suole Vibram che la spedizione italiana guidata da Ardito Desio conquistò la vetta del K2 nel 1954.

Nello stesso anno, in Italia, avviene una piccola rivoluzione industriale: la Candy, azienda nata dalle Officine Meccaniche Eden Fumagalli di Monza, lancia la Bi-Matic, la prima lavabiancheria semiautomatica con centrifuga. Oggi Candy è uno dei principali produttori europei di elettrodomestici e detiene anche i marchi Zerowatt e Gasfire. Ma nel settore elettrodomestici sono italiane anche Smeg (acronimo di Smalterie Metallurgiche Emiliane Guastalla, con sede appunto a Guastalla, in provincia di Reggio Emilia), Ignis, Imetec, Indesit, Rex e Zoppas.

Non fatevi quindi ingannare dal loro suono straniero: molti marchi famosi che sembrano esteri sono in realtà italiani. Talvolta, come nel caso degli acronimi, per pura coincidenza; più spesso perché un brand vincente, riconoscibile e facile da pronunciare è la chiave per avere successo anche fuori dai nostri confini: è ad esempio il caso di Diesel, marchio d’abbigliamento giovane ormai presente in 80 paesi, la cui storia nasce nel 1978 da un’idea di Renzo Rosso, originario di Brugine, un paesino del padovano. Un piccolo centro privo persino di strade asfaltate, in cui Rosso coltivava il mito dell’America, stimolato anche dalla liberazione del paese da parte dell’esercito americano alla fine della guerra. Ecco perché il primo negozio monomarca Diesel (nome scelto perché pronunciabile allo stesso modo in tutte le lingue) fu aperto a New York, in Lexington Avenue, e proprio di fronte alle insegne del concorrente Levi’s. La Diesel, di cui Rosso mantiene il completo controllo fin dal 1985, ha sede a Molvena, in provincia di Vicenza, e dopo una fase produttiva con un forte “outsourcing” all’estero, oggi sta gradualmente tornando al vero “made in Italy”, e confeziona più della metà dei suoi capi del nostro paese. La Diesel commercializza anche i marchi Replay e 55DSL, il cui nome nasce dalla contrazione della parola “Diesel” e dall’anno di nascita di Renzo Rosso, il 1955.

Può ingannare anche il genitivo sassone della Tod’s, gruppo industriale di proprietà di Diego Della Valle che ha sede a Sant’Elpidio al Mare (AP). Curiosa la scelta del nome: Della Valle lo incontrò una trentina d’anni fa nell’elenco telefonico di Boston, e gli suonò bene. Oggi i famosi mocassini dalle caratteristiche suole con piccoli tacchetti in gomma sono un’icona in tutto il mondo, e il “Ralph Lauren italiano” (così lo ha definito la rivista New Yorker) ha portato al successo anche altri due marchi del gruppo, la linea d’abbigliamento Fay e le calzature Hogan, ispirate alle scarpe inglesi da cricket degli anni ’30. Per difendere quest’ultimo marchio Della Valle ha tentato persino di opporsi alla richiesta di registrazione avanzata da un famoso campione di wrestling, Hulk Hogan.

Sempre in tema di scarpe, sono italiane al 100% anche le Geox, marchio che nasce dalla fusione delle parole “geo” (terra in greco) ed “x”, lettera-elemento che simboleggia la tecnologia. La Geox, che ha sede a Baidene di Montebelluna (TV), è stata fondata nel 1995 e produce oggi quasi 5 milioni di paia di scarpe l’anno. Poco lontano sono nati i Moon Boot, ideati all’inizio degli anni ’70 su ispirazione degli stivali utilizzati per l’allunaggio. Li produce, ancora oggi, la Tecnica di Giavera del Montello, sempre in provincia di Treviso. Il marchio è stato registrato nel 1978; curiosamente, i Moon Boot sono fra le poche calzature che non presentano differenze fra destra e sinistra.

Saturday 19 April 2008

I Grandi Flop (2): videogames

Nel 1983, l'intero mercato dei videogiochi andò al collasso, al punto che sembrava la fine di una moda destinata a non ripresentarsi più. La cosa divertente è che fu colpa (quasi completamente) di un solo gioco. Del più brutto gioco della storia.

Nel mese di giugno del 1982 usciva nei cinema E.T., e la Atari, che all'epoca se la passava bene grazie alle vendite del suo VCS (o 2600 che dir si voglia), spese oltre 20 milioni di dollari per acquistare la licenza del film. Purtroppo però, per via delle lunghe contrattazioni e della necessità di uscire nei negozi in tempo per Natale, rimanevano solo cinque settimane (e pochi soldi) per fare il gioco.

L'onere ricadde sul povero Howard Scott Warshaw, richiesto da Spielberg perché aveva lavorato al precedente gioco tratto da I Predatori dell'Arca Perduta. Warshaw, pur dovendo gestire solo 6,5 Kbyte di codice, non poté fare miracoli e produsse un'inqualificabile schifezza in cui, grossomodo, occorreva trovare vari pezzi di un telefono così che E.T. potesse chiamare a casa. La Atari, certa di poter stravendere, sfornò 4 milioni di cartucce. Ne rimasero invendute talmente tante (circa 3 milioni) che dovettero essere seppellite in una discarica nel deserto del New Mexico. La reazione dei consumatori fu furibonda: la Atari aveva già rischiato grosso qualche mese, prima lanciando una versione assai scadente di Pac-Man (il gioco arcade più in voga all'epoca). Il mercato perse completamente interesse per i videogiochi, per oltre un anno.

Un fallimento a lieto fine è invece quello del “coin-op” di Radar Scope, che la Nintendo lanciò nel 1980. Il gioco fu snobbato dal pubblico e svariate centinaia di esemplari ancora in produzione vennero convertiti all’ultimo momento in un altro titolo, creato in fretta e furia da un giovane programmatore di nome Shigeru Miyamoto: si chiamava Donkey Kong, ed era il primo videogioco in cui compariva il personaggio di Super Mario.

Nella prossima puntata: quando i russi copiarono il Concorde.

Friday 18 April 2008

Should I stay, or should I rock the Casbah?


"Just the fact that people seem to be getting dumber and dumber. You know, I mean we have all this amazing technology and yet computers have turned into basically four figure wank machines. The internet was supposed to set us free, democratize us, but all it's really given us is Howard Dean's aborted candidacy and 24 hour a day access to kiddie porn. People...they don't write anymore - they blog. Instead of talking, they text, no punctuation, no grammar: LOL this and LMFAO that. You know, it just seems to me it's just a bunch of stupid people psuedo-communicating with a bunch of other stupid people at a proto-language that resembles more what cavemen used to speak than the King's English."
-Hank Moody.

Thursday 17 April 2008

The Dunning-Kruger effect

L'effetto Dunning-Kruger è un fenomeno in base al quale le persone con scarsa competenza ritengono sistematicamente di saperne di più delle persone con maggiore competenza. In altre parole è quel processo cognitivo secondo cui chi sa poco pensa di sapere molto, mentre chi sa molto pensa di sapere poco. I signori Justin Kruger e David Dunning, della Cornell Universiity, hanno insomma dato dimostrazione scientifica della famosa affermazione di Darwin: "l'ignoranza più frequentemente ingenera fiducia che non il sapere".

In base al loro studio, per una data abilità o qualifica mediamente diffusa (come guidare l'auto o giocare a scacchi), hanno osservato che gli indvidui con scarsa competenza tendono a sovrastimare le loro abilità e a non riconoscere le abilità altrui, per contro non individuando le proporzioni della loro incompetenza. Tuttavia, se il livello di competenza effettiva di tali individui viene fatto aumentare, sono successivamente in grado di riconoscere la loro precedente mancanza di abilità.

Per scoprire tutto questo, i due hanno fatto una serie di domande agli studenti della loro università, su temi di grammatica, logica e humor; il risultato è stato che coloro che hanno avuto i punteggi peggiori ritenevano invece di trovarsi nella parte alta della classifica.

Interessante che succeda anche con l'umorismo: è il caso di chi racconta barzellette che non fanno ridere, ma è convinto di essere uno spasso.

Non ci sono grosse conferme su questo studio, anzi pure sbeffeggiato con un IgNobel prize, ma io mi fido. D'altronde ne so molto più di voi.

Germano

Wednesday 16 April 2008

Provati per voi

Per soli 0,79 euro, potete avere a casa vostra questa eccellente bevanda, un energy drink di produzione olandese che offre gli stessi contenuti della Red Bull (32mg/100ml di caffeina, 400mg di taurina, 20mg di inositolo, più una dose non precisata di glucoronolattone).

Per l'energy drinker con un budget limitato, la Mad Croc è un po' come una medicina, perché va presa senza sottilizzare sul sapore fortemente metallico, con un retrogusto che ricorda quello di una Big Babol degli anni '80 (cioé scaduta da vent'anni). In altre parole, fa cagare.

0,79 euro è però un prezzo molto invitante, se considerate che nei tre supermercati a me più prossimi la Red Bull costa da €1,16 (alla Coop, che però è lontana) fino a ben a €1,64 (da quei ladri del DìperDì, che però la forniscono già refrigerata). All'Esselunga, per vostra informazione, costa €1,29.

Meno feroce del gusto è il design della lattina, in linea con la qualità modesta del prodotto; presumibilmente è stato rifatto un po' di corsa dopo che la Red Bull ha vinto la causa. Già, perché prima la lattina della Mad Croc era così:
Update. Scopro ora che è uscita questa:

La voglio.

La principessa dello sciacquone

Una volta avevo un'amica che faceva scorrere l'acqua del bidet ogni volta che andava in bagno a fare pipì: non sopportava l'idea che qualcuno sentisse il rumore delle sue funzioni corporali. Non era giapponese, ma in Giappone si sarebbe trovata molto più a suo agio: pare infatti che questa mania sia comune a tutte le donne del sol levante, tanto che l'abitudine di tirare l'acqua 2 o 3 volte per ogni visita al bagno stava contibuendo a sprecare preziose risorse idriche (ogni sciacquone=circa 13 litri).

Ecco perché la Toto Ltd ha pensato bene di produrre l'Otohime (è il nome di una principessa di una favola per bambini), l'apparecchietto che vedete qui sopra e che è ormai diffuso nei bagni pubblici giapponesi tanto quanto i "cessi robot" negli alberghi (di quelli magari parliamo un'altra volta...). Basta premere un tasto - ma nelle versioni più igieniche c'è la fotocellula - per produrre subito il dolce suono dello sciacquone, senza sprecare acqua.

Perché non un soave canto o il cinguettar d'uccelli, direte voi? Perché a quel punto le signorine giapponesi continuerebbero a preferire il vero sciaquone, come peraltro pare che alcune facciano comunque, insoddisfatte dalla qualità non hi-fi del finto tirar d'acqua.

Tuesday 15 April 2008

Le Grandi Biografie (3): Ray Tomlinson

Vi ricordate il contenuto della prima email che avete mai mandato?

Bene, tanto non se lo ricorda neppure l'uomo che l'email l'ha inventata.

Nel 1971, appena trentenne, il programmatore Ray Tomlinson collaborava al progetto ARPANet, l'antesignano di internet. Nel tempo libero inventò un sistema per inviare messaggi elettronici da un computer all'altro all'interno del network: fino ad allora i messaggi erano confinati ad un singolo calcolatore. Si pose anche il problema di come separare l'indirizzo e il nome del destinatario, e decise di usare il simbolo "@" (che tuttavia non inventò, dato che esiste da secoli), salvandolo dall'orlo dell'oblio in cui si trovava e rendendolo celebre.

Curiosamente, la prima email della storia Tomlinson la inviò a se stesso, fra due computer adiacenti, e ricorda solo che era completamente in caratteri maiuscoli e che non aveva alcun significato (nelle sue parole: "sarà stato qualcosa del tipo QWERTYUIOP").

Acqua in bocca. Tomlinson però stava lavorando a tutt'altro: questo scambio di messaggi era una forma di cazzeggio. Mostrò l'email a un suo collega, al quale tuttavia raccomandò estrema discrezione, dicendogli "non dovremmo perdere tempo con queste cose!". Non ha mai tratto alcun guadagno dalla sua invenzione e soltanto recentemente ha ricevuto i primi riconoscimenti in ambito informatico.

Friday 11 April 2008

L'Italia agli Italiani?

Sono tantissimi i marchi commerciali italiani oggi di proprietà di società straniere, anche se molti mantengono stabilimenti produttivi e sedi operative nel nostro paese.

Una tendenza particolarmente evidente nel settore alimentare: l'anglo-olandese Unilever possiede Bertolli, Calvé e Findus; la svizzera Nestlé le acque minerali Panna, Vera e Sanpellegrino, oltre ai marchi Motta, Maggi, Buitoni e Perugina; la francese Lactalis ha acquisito alcuni fra i principali marchi dell'industria casearia italiana, come Galbani (strappato alla concorrente Danone), Invernizzi, Locatelli e Cademartori. Non va meglio nel campo delle birre: Dreher e Birra Moretti sono della Heineken (che è olandese, e non tedesca), del colosso inglese SABMiller è invece la Birra Peroni, che tuttavia detiene a sua volta il marchio Wuhrer; italianissima almeno la birra Splugen (gruppo Poretti). E' invece della Bacardi il marchio Martini & Rossi.

Non sono più italiani neppure i supermercati Sma (della francese Auchan) e Standa, passata nelle mani dell'austriaca Billa. Ancora più noti i casi di Lamborghini e Bugatti, marchi storici dell'automobilismo sportivo italiano oggi di proprietà della tedesca Volkswagen. Da notare, in questo settore, l'inversione di tendenza operata dalla Ducati, tornata di proprietà italiana nel 2005 dopo essere stata controllata per quasi dieci anni dall'americana Texas Pacific Group.

Restano fuori dai nostri confini anche le proprietà di Emilio Pucci, Fendi, Berluti, StefanoBi e Acqua di Parma, tutti del colosso francese Moet Hennessy Louis Vuitton (LVMH).

(2 - continua)

Thursday 10 April 2008

Caro KEO, ti scrivo

Un riassunto della cultura terrestre di oggi da inviare nel "futuro": è il progetto KEO (un nome scelto pensando ai tre suoni più diffusi nelle lingue parlate moderne: k, e, o), patrocinato dall'UNESCO.

Oltre a una collezione di immagini e suoni, sulla falsariga del Voyager, la sonda KEO conterrà i messaggi di chiunque si colleghi al sito: ci sono 6000 battute a disposizione di ogni abitante del pianeta Terra, da inviare entro il 31 dicembre 2008. Potete anche scrivere una marea di bestemmie: non è prevista alcuna censura.

Il lancio dovrebbe avvenire nel 2009 o nel 2010 (è stato più volte rimandato, cosa che sta togliendo un pizzico di credibilità al progetto): si attende la realizzazione definitiva del razzo Ariane 5 e un primo lancio con payload; KEO sarà un "passeggero" aggiunto. La sonda orbiterà nello spazio per poi tornare sulla Terra 50mila anni dopo... ma cosa troverà?

Wednesday 9 April 2008

I Grandi Flop (1): soda drinks

Nel 1985 la Coca-Cola, per contrastare l'avanzata di Pepsi (che si faceva pubblicità con Micheal Jackson) decide che è ora di novità, e cambia la sua secolare ricetta lanciando la “New Coke”.

Sarà uno dei più grandi flop commerciali della storia, un vero e proprio disastro di marketing. La reazione del mercato è talmente negativa che solo tre mesi più tardi la vecchia versione torna sul mercato come “Coca-Cola Classic”. Gradualmente la New Coke viene dimenticata, rinominata in “Coca Cola II” e quindi definitivamente ritirata nel 1992. Non è mai arrivata in Italia.

Un passo falso talmente clamoroso che alcuni teorizzano sia stato architettato appositamente. Perché? Ci sono diverse teorie: per coprire il passaggio dallo zucchero di canna allo sciroppo di mais (HFCS), per eliminare gli ultimi derivati della pianta di coca dalla ricetta o per registrare nuovamente il marchio, che nel 1985 era in scadenza avendo compiuto 100 anni.

Una simile disavventura coinvolge ancora la Coca-Cola nel 2004, per la sua acqua minerale Dasani: viene commercializzata in Inghilterra come ‘acqua pura’, finché i media scoprono che proviene da acquedotti municipali inglesi (è acqua di rubinetto) ed è sottoposta a un semplice trattamento di purificazione; più avanti emerge persino che l’acqua contiene sostanze tossiche derivanti dagli additivi utilizzati durante la purificazione. La Coca-Cola è costretta a richiamare mezzo milione di bottiglie e ritira il marchio dal mercato; l’episodio farà accantonare i progetti di lancio dell’acqua Dasani nel resto d’Europa, nonostante il brand sia tuttora presente negli USA e in tanti altri paesi, dove spesso è leader tra le acque in bottiglia.

Non va bene neppure alla Pepsi quando, nel 1992, decide di lanciare una bizzarra versione incolore della sua cola, chiamandola Crystal Pepsi: ingannati dal liquido trasparente (che in realtà era di sapore identico alla normale Pepsi) i consumatori sentono un aroma al limone che in realtà non c’è, e snobbano la bevanda. Verrà ritirata dal mercato meno di un anno dopo.

Nella prossima puntata: il videogioco che fece crollare un intero mercato.

Tuesday 8 April 2008

EcoBalle Spaziali

L’orbita terrestre è invasa dai rifiuti: milioni di frammenti che si accumulano continuamente e che stanno cominciando a diventare pericolosi.

Si chiama LEO (Low earth Orbit) ed è una zona compresa fra l’atmosfera e le fasce di Van Allen: sta rapidamente diventando una discarica spaziale, perché è invasa da oggetti ormai inutili di diversa natura: soltanto quelli più larghi di 1cm sono oltre 600mila. Oltre a satelliti dimessi, serbatoi esausti e frammenti di veicoli spaziali, ci sono anche un guanto (perso durante la prima passeggiata spaziale), una fotocamera (dimenticata dalla missione Gemini 10), sacchi di spazzatura e persino uno spazzolino da denti.

Sono oltre 3000 i veicoli spaziali in disuso e più di 7000 in totale gli oggetti di dimensioni sufficientemente grandi da poter essere tracciati da Terra nel loro percorso.
Il problema è che gli oggetti compresi in quest’area orbitano la Terra in soli 90 minuti, viaggiando quindi a una velocità di circa 27,400 chilometri orari: anche uno spillo può diventare pericoloso; non a caso la Stazione Spaziale Internazionale è stata opportunamente fortificata proprio per far fronte a eventuali collisioni, e qualsiasi veicolo spaziale che attraversa la fascia deve essere condotto con estrema cautela.
Il timore è che una serie casuale di scontri fra oggetti diversi inneschi una reazione a catena dagli esiti incontrollabili, tale da rendere eccessivamente rischioso l’attraversamento della fascia.

Misure eccezionali. Attualmente i frammenti di grandi dimensioni sono tenuti sotto controllo (dallo USSTRATCOM) per evitare collisioni accidentali. Tuttavia, sono allo studio diverse misure per arginare il problema. Da un lato limitando l’aggiunta di nuovo materiale, ad esempio creando una nuova orbita “cimitero” in un’area attualmente vuota, ove inviare i satelliti al termine del loro ciclo vitale. Dall’altro ipotizzando sistemi di raccolta del materiale, tramite raggi laser o persino grossi proiettili di aerogel per intrappolare i frammenti e farli rientrare nell’atmosfera terrestre (ove verrebbero dissolti).

Monday 7 April 2008

Le Grandi Biografie (2): Stanislav Petrov

Il 26 settembre 1983, in piena Guerra Fredda, il tenente colonnello Stanislav Petrov era di turno presso il bunker di controllo Serpukhov-15, vicino a Mosca.

Poco dopo la mezzanotte, il sistema segnalò un missile in arrivo verso l'URSS dagli Stati Uniti.

Petrov pensò subito a un errore di rilevazione, perché difficilmente un attacco sarebbe stato condotto con un missile soltanto. Pochi minuti dopo, tuttavia, il sistema segnalò un secondo missile, e poi altri ancora, per un totale di cinque. Non c'era modo di verificare queste segnalazioni, perché il radar di terra non poteva rilevare oggetti che viaggiavano oltre l'orizzonte. Petrov era di fronte a un dilemma: la procedura gli imponeva di lanciare i missili sovietici, perché l'unico modo di rispondere all'attacco era agire immediatamente. Il suo intuito, tuttavia, gli suggerì di aspettare, confidando che si trattasse veramente di un errore di rilevazione. Così facendo evitò di fatto la Terza Guerra Mondiale, rifiutandosi di aderire a una procedura che avrebbe innescato un conflitto atomico su ampia scala.

Niente gloria. In seguito all'episodio, Petrov fu tutt'altro che glorificato dai suoi superiori, che anzi ne stroncarono la carriera ritenendolo un ufficiale non affidabile; i dettagli di quanto accadde quella notte vennero inoltre resi noti soltanto nel 1998.

La condotta di Petrov è particolarmente straordinaria se si pensa al clima in cui l'incidente ebbe luogo: soltanto tre settimane prima l'URSS aveva infatti abbattuto un aereo di linea coreano che si era spinto per errore nello spazio aereo sovietico, uccidendo 279 passeggeri, molti dei quali americani (episodio che, peraltro, convinse Reagan a rendere disponibile al traffico civile il sistema satellitare GPS in quel periodo in costruzione). Il KGB aveva allertato i suoi agenti preparandoli alla possibilità di uno scontro nucleare; la Guerra Fredda era al culmine della tensione.

Petrov vive in Russia, sconosciuto ai più. Nel 2007 è stato accolto alle Nazioni Unite e ha ricevuto, a San Francisco, due "World Citizen Award".

Nella prossima puntata: l'uomo che ha cambiato il nostro modo di comunicare.

Sunday 6 April 2008

La teoria delle Stringhe

Quanti modi di inserire le stringhe nelle scarpe esistono? Considerando un paio di scarpe dotate di 12 asole per scarpa, esistono quasi 2mila miliardi di combinazioni (precisamente, 24 x 22 x 20 x 18 x 16 x 14 x 12 x 10 x 8 x 6 x 4 x 2 modi, per un totale di 1,961,990,553,600).

Volendo limitare il calcolo in relazione al fine ultimo di rendere la scarpa indossabile, e cioè di unire assieme i due lembi superiori, le possibilità di incastro scendono a “solo” 43,200. Fra tutte queste, uno studio matematico (Nature, 2002) ha rivelato che quella più efficace è la cosiddetta “bowtie” (“farfallino”), che consiste nel far passare la stringa in un’asola e in quella più vicina sullo stesso lembo, e poi in diagonale verso l’altro; tuttavia, è poco utilizzata.

Ovviamente non tutti metodi sono pratici o efficaci, ma ci sono almeno 30 modi effettivamente utilizzabili di allacciare le scarpe, ciascuno con i suoi pregi e difetti e con differenti difficoltà di implementazione.

Nodo debole. Ma come bisogna allacciarsi le scarpe? La maggior parte delle persone sbaglia, creando due nodi sovrapposti che si sciolgono facilmente. Il modo corretto è di non passare il nastro destro sotto il sinistro prima di effettuare il secondo nodo (quello a fiocco), ma il contrario. La corretta esecuzione è testimoniata dal fatto che un doppio nodo stabile rimane perpendicolare rispetto alla scarpa, mentre uno male eseguito tende a sistemarsi parallelamente ad essa. Provare per credere.

Saturday 5 April 2008

Volate sereni.

Tutti conoscerete la fittizia Oceanic Airlines, la disgraziata linea aerea di Lost (e di svariati film in precedenza, sempre protagonista di disastri). Non tutti, invece, avrete sentito parlare dell'assai simile Ocean Airlines, di cui vedete qui raffigurato un bell'esemplare di Boeing 747.

Non è, come si potrebbe credere, né una burla né un'esotica linea aerea dell'emisfero australe, ma un'onesta (forse) compagnia all-cargo con sede all'aeroporto Montichiari di Brescia. Offre una manciata di destinazioni verso l'Asia e opera con 2 Boeing 747 ex-Air France. In realtà dovrebbero essere quattro, ma leggo che ha avuto qualche problema:

"L’acquisto di quattro Boeing 747-200 cargo da Air France da parte della compagnia bresciana Ocean Airlines annunciato in ottobre non è mai stato completato. Almeno un esemplare giace da un paio di mesi sull’aeroporto Parigi-Charles De Gaulle [...], non consegnato per mancato pagamento. Inoltre a fine dicembre il Certificato di Operatore Aereo (COA) è stato sospeso dall’ENAC su richiesta della compagnia fino al 22 marzo. La compagnia avrebbe accumulato oltre 10 milioni di euro di perdite." (da DedaloNews)

La Oceanic è stata fondata nel 2003, quindi prima della messa in onda del pilot di Lost (22 settembre 2004 negli Stati Uniti). Curiosamente anche i due loghi mostrano però qualche similitudine:
Ma perché preoccuparsi? Non appena potete, affidate con fiducia i vostri pacchi alla Ocean Airlines!!

Friday 4 April 2008

Più Potenza per la mia Avanza

Se l'Italia è così affascinata dai nomi stranieri per i suoi marchi, il resto del mondo non disdegna affatto l'italiano per i suoi, specie in ambito gastronomico. Nei supermercati americani impazzano piatti a base di pasta e condimenti dagli improbabili nomi italiani o italianizzati, mentre è ormai un classico il marchio Chef Boyardee (il leader nel campo degli spaghetti... in scatola), nato dall'idea dell'emigrante Ettore Boiardi che cominciò a inscatolare pasta e sugo già a partire dagli anni '30. Suono nostrano anche per Sbarro, una catena di fast food all'italiana che nacque a Brooklyn nel 1959.
Due delle principali catene di 'coffee bar' del Regno Unito si chiamano Costa Coffe e Caffé Nero, mentre la famosa Starbucks, che ha punti vendita in tutto il mondo tranne che in Italia, definisce "baristas" gli addetti alla preparazione delle bevande e usa nomi italiani per le misure dei suoi bicchieri: "Grande" (che è in realtà la misura media) e "Venti" (la più capiente: si chiama così perché contiene venti once fluide).

Una vera passione per la nostra lingua la dimostrano anche i Giapponesi: molti negozi e catene usano parole italiane ("Caffé Veloce"), ma così fanno anche le grandi industrie, specie quelle automobilistiche. La Toyota ha lanciato, in molti casi solo in Giappone, auto chiamate Caldina, Solara, Sequoia, Avanza (qui sopra in foto), Altezza (da noi diventata la Lexus IS200), Innova, Carina e Corolla; la Honda ha risposto con Concerto, Domani, Integra e persino Mobilio, un'auto che da noi non andrebbe proprio per la maggiore. Non ha rinunciato a partecipare neppure Subaru, con le sue Impreza, Leone e Vivio, mentre il produttore di pneumatici Bridgestone ha chiama Potenza e Turanza i suoi modelli di punta. Anche nel campo dei videogiochi i giapponesi non disdegnano l'italiano, come testimoniato dal ben noto gioco di corse per PlayStation Gran Turismo e dalla meno nota simulazione calcistica Libero Grande. Tornando in Europa, non bisogna farsi sorprendere dai marchi di orologi di lusso, al 100% svizzeri, Rado e Movado (quest'ultima offre modelli chiamati Fiero, Certa, Dolce e Vizio). Più lontano il legame con due famosi marchi automobilistici che si rifanno a parole latine: Audi (dal latino, audire, cioè "sentire"; nome scelto per associazione di significato con il nome del fondatore della casa, August Horsch; "horsch" in tedesco vuol dire proprio "sentire") e Volvo (dal latino volvere, cioè "rotolare").

(da un pezzo scritto ma mai pubblicato sul foreign branding. col tempo magari pubblicherò anche le altre 6 cartelle...)

Thursday 3 April 2008

Il meglio di un uomo

La prossima volta che vi fate la barba, cari lettori e care lettrici, riflettete per qualche secondo sull'affascinante, concorrenziale mercato del "rasoio di sicurezza" (così detto perché la lama è protetta in un alloggiamento di sicurezza che impedisce di tagliarsi).
Gillette contro Schick (chiamata Wilkinson in Europa): una guerra a colpi di lame che dura da decenni. Negli anni '60, fu Wilkinson a prendere il largo lanciando per la prima volta sul mercato le lamette di acciaio inossidabile, che potevano essere usate più di una volta: prima, dopo la rasatura iniziale, le lame finivano per riempirsi di ruggine. Gillette attese diversi anni prima di passare all'inossidabile, semplicemente perché possedeva il brevetto per quel tipo di lama: faceva più soldi continunando a vendere lamette tradizionali (buone per un solo utilizzo e quindi da riacquistare continuamente) e raccogliendo royalties dal suo principale competitor.

La guerra ha poi investito anche altri settori merceologici: dopo che la Gillette acquistò la Duracell nel 1996, Schick decise di comprare il principale concorrente Energizer. Ecco perché ci sono i rasoi a batteria: fanno vendere anche le pile.

Ma siamo davvero sicuri che il rasoio a lame multiple rada meglio? Un rasoio a doppia lama rade meglio di un rasoio a singola lama, perché la prima lama solleva il pelo e la seconda lo recide. L’utilità di ulteriori lame, tuttavia, non è chiara né dimostrata: per molti uomini, al contrario, i rasoi con tre o più lame sono causa di maggiori irritazioni e di rasature meno accurate. Gillette si è anche presa la briga di dimostrare "scientificamente" l'inutilità delle quattro lame (nel periodo in cui Wilkinson uscì con il modello Quattro), salvo poi lanciare Fusion, il primo rasoio a cinque lame.

Ma dove andremo a finire con tutte queste lame? Il primo rasoio bilama è stato introdotto dalla Gillette nel 1971; quindici anni dopo è arrivato il trilama, e sono poi serviti soltanto altri due anni per l’aggiunta della quarta e della quinta lama. Secondo questa progressione matematica, i rasoi nel 2015 avranno lame infinite!

Lame a parte, c'è qualcosa di molto interessante nel modello di mercato dei rasoi usa e getta, che sono prodotti "loss leader", cioè venduti a prezzo ridotto per generare guadagni in altro modo. Ha qualcosa in comunque con quello, ad esempio, delle stampanti: il "sistema" iniziale è venduto a prezzo basso, per invogliare all'acquisto; il vero guadagno è sulle "cartucce". Le lame per i rasoi sono così care (da 8 a 13 euro a confezione) che i supermercati ormai le tengono spesso sotto chiave, dato che rappresentano uno dei principali obiettivi dei taccheggiatori.

L'intuizione venne a King Gillette nel 1903, ed è più che mai valida ancora oggi. Non a caso Chris Anderson, editor di Wired, scriverà il suo prossimo libro su questo tema (non sui rasoi, sui prodotti offerti gratis o quasi gratis), e in uno degli ultimi numeri della rivista ha pubblicato "Free!", una succosa anticipazione.

Ora scusate, ma m'è venuta una barba incredibile a scrivere tutto questo.

Wednesday 2 April 2008

Prija Lumil

Per sapere quale è il tuo nome Star Wars:
- prendi la prime 3 lettere del tuo cognome
- aggiungici le prime 2 lettere del tuo nome

Per il tuo cognome Star Wars:
- prendi le prime 2 lettere del cognome di tua mamma
- aggiungici le prime 3 lettere della città dove sei nato

E il vostro?

Millennium Bug 2.0

Ricordate la bolla di sapone del Millennium Bug? Beh, ci risiamo. Non so se anche stavolta sarà un nulla di fatto e mancano ancora molti anni, ma è meglio iniziare a pensarci.

Nel 2038 (precisamente alle 04:14:07 italiane del 19 gennaio 2038) ci aspetta un nuovo "Millenium Bug", che rischia di mandare in tilt molti dei sistemi informatici del mondo. Il bug interessa i sistemi Unix, che calcolano il tempo in forma di secondi scanditi da un momento d'origine (il 1° gennaio 1970); trattandosi di un software a 32-bit, entro quella data il "contatore" raggiungerà il valore massimo, segnando di lì in avanti numeri in negativo (e resettando il calendario al 1901). Dato che il problema già interessa alcune applicazioni , ad esempio quelle che calcolano i mutui trentennali, in molti si stanno muovendo per trovare la soluzione, cosa non facile.

Il Bug dell'anno 2038 è anche il motivo per cui John Titor (v. mio su Focus 167) torna indietro nel tempo nel 1970 per recuperare un oscuro modello di PC IBM che gli servirebbe per evitare i crash dei sistemi informatici nel "suo" futuro.

Ah, se ce la caviamo anche con questa, il prossimo è nell'anno 10.000.

Tuesday 1 April 2008

Chiamamolo Strano

VIP e nomi comuni? Naaaah. Le figlie del musicista Frank Zappa si chiamano Moon Unit, Ahmet Emuukha Rodan, Dweezil e Diva Thin Muffin Pigeen. L’appassionato di volo e attore Jason Lee ha condannato il figlio al nome di Pilot Inspektor, mentre Tommy Lee Jones ha reso omaggio al suo autore preferito chiamando il suo primogenito Kafka. In memoria di un famoso videogioco della Nintendo, Robin Williams ha affibbiato il principesco Zelda alla figlia; meno bene è andata alla bambina di Penn Jillette (di Penn & Teller), che si chiama Moxie Crimefighter. Nome da Superman per Kal-el, figlio di Nicolas Cage, mentre si sospetta una semplice assonanza per Zowie Bowie. Da denuncia le scelte di “Sir” Bob Geldof: Peaches Honeyblossom, Pixie Frou-Frou e Fifi Trixibelle sono i nomi delle sue figlie; Peaches ha avviato contro di lui una campagna mediatica in difesa dei nomi “normali”. Soltanto altisonante l’Amadeus scelto da Mia Farrow per il figlio, e quantomeno eccentrici i Romeo e Brooklyn dei coniugi Beckham. Molto noto, infine, il caso di Condoleezza Rice: per un errore di spelling si è persa la forma originale del nome, “Condolcezza”. In Italia non si possono dimenticare i figli di Ignazio La Russa, una piccola tribù indiana: Kocis, Apache e Geronimo. Tra il resto della prole VIP di casa nostra si segnalano soprattutto Brenno Martelli, Ilan Muccino e Swami Casalegno.

Diversi gli esempi anche tra la gente comune. In Svezia, per protestare contro una legge che limita la creatività nell’assegnazione dei nomi ai figli rifiutando quelli che “possono creare disturbo a chi li porta”, una coppia ha cercato di registrare all’anagrafe per il loro primogenito il nome Brfxxccxxmnpcccclllmmnprxvclmnckssqlbb11116, che è stato, per l’appunto, rifiutato. In tutta risposta la coppia ha scelto come nome semplicemente la lettera A, ma anche questa proposta non è andata a buon fine.
Il politico americano Byron Anthony Looper, quando era in corsa per le elezioni locali nel 1998, cambiò il suo nome legalmente da “Anthony” a "Low Tax”, diventando così noto col nome di Byron Low Tax Looper. Evidentemente un segno della sua scarsa stabilità mentale, dato che poco dopo si rese responsabile dell’omicidio del suo principale avversario politico (sta ora scontando l’ergastolo).
Forse per spirito di emulazione, il politico inglese John Desmond Lewis ha cambiato il suo nome in onore di un personaggio dei Monty Python, diventando così noto come Tarquin Fin-tim-lin-bin-whin-bim-lim-bus-stop-F'tang-F'tang-Olé-Biscuitbarre.

Diversi i casi di nomi cambiati legalmente per motivi pubblicitari: l’americana Terri Hiligan, per la cifra di 15mila dollari, si chiama ora GoldenPalace.com (il nome di un casinò online);
Un ingegnere informatico americano di nome Jon Blake Cusack ha dato il suo stesso nome al figlio, ma al posto del classico suffisso ‘Jr.’ ha preferito un più moderno ‘2.0’.
Curioso, infine, il caso di Jaime Lachica Sin, prelato filippino divenuto noto come “Cardinal Sin” (“peccato mortale”).
Infine, il record per il nome più lungo del mondo (certificato dal Guinness dei Primati) spetta a Hubert Blaine Wolfeschlegelsteinhausenbergerdorff (questa la forma da lui usata per iscritto), un signore tedesco soprannominato “Wolfe+585”, perché il suo terzo nome è composto da ben 590 lettere.

Monday 31 March 2008

Le Grandi Biografie (1): Thomas Midgley, Jr.

Amabile ingegnere e inventore, di cui pochi hanno sentito parlare, Thomas Midgley Jr. è forse il meno noto fra gli uomini che hanno cambiato il mondo.

Nato nel 1889 a Beaver Falls, Pennsylvania, nel 1921 lavorava presso una sussidiaria della General Motors. Gli fu affidato il compito di risolvere il problema dei motori che "battevano in testa", assai diffuso in quel periodo per via della scarsa qualità della benzina (nel cilindro del motore a scoppio la miscela di carburante e aria si accendeva troppo presto, prima che scoccasse la scintilla, e “detonava” con danni al motore stesso). Midgley provò ad aggiungere alla benzina oltre 31,000 sostanze diverse, procedendo spesso per caso (si dice che provò persino con l'urina e la saliva), finché non trovò che il piombo tetraetile, un derivato organico del piombo, funzionava egregiamente.

Peccato che funzionasse egregiamente anche come agente cancerogeno e tossico. Quando, decenni più tardi, vennero alla luce i problemi ambientali e di salute che il piombo provocava, pur di sostenere il suo operato arrivò a inalarlo direttamente in pubblico e a versarne una piccola quantità sulla mano per dimostrare che era innocuo, salvo poi dover passare settimane a disintossicarsi. Il piombo venne ritirato come additivo della benzina nel 1986.

Quasi a "scusarsi" di quella malaugurata invenzione il nostro si dedicò, anni più tardi, al problema dei gas refrigeranti per i frigoriferi: all'epoca erano in uso anidride solforosa e ammoniaca, entrambi tossici e di odore sgradevole. Midgley li sostituì con i clorofluorocarburi, gas inodore che considerava del tutto innocui; presto vennero utilizzati in vari altri ambiti, dai pesticidi alla plastica, finché nel 1974 non si scoprì quali devastanti effetti i CFC avevano sullo strato di ozono.

Nella sua carriera Midgley registrò oltre 117 brevetti, finché non fu costretto a ritirarsi per aver contratto la poliomielite. La sua morte (1944) però è davvero tragicomica: data la scarsa mobilità causata dalla malattia, inventò una macchina a cavi e pulegge per alzarsi dal letto.

Purtroppo non ebbe tempo di perfezionarne il funzionamento e morì strangolato dalla sua stessa invenzione, all'età di 55 anni.

Mi chiedo cosa aspettino a farci un film.

Nella prossima puntata: l'uomo che ha salvato il mondo.